Travestito da Gerry Scotti, di fronte a me il professor Enzo Salanitro, collezionista appassionato di figurine e foto rossazzurre d’epoca.
“Per scoprire se sei pronto a scrivere un libro interamente dedicato alla storia del Catania, Alessandro, dimmi chi tra le vecchie glorie rossazzurre è lo zio di Carmen Consoli.”
“Molto semplice, – ribatto d’un fiato mentre parte il conto alla rovescia – stai parlando di Isidoro Artico, nato a San Stino di Livenza e mezzala di qualità e quantità del Catania anni ’60.”
Un paio d’ore più tardi, con addosso i panni di Sherlock Holmes, mi incollo al telefono.
“Signor Artico, – domando senza pensarci due volte – cosa le accadde domenica 19 settembre di quarantacinque anni fa?”
“Impossibile dimenticare – replica una voce emozionata – il fatidico esordio in rossazzurro. Ero seduto sugli spalti del Cibali, in attesa che cominciasse la gara con il Lanerossi Vicenza. Io ero un interno di punta aggressivo, con la vocazione dei numeri che piacevano al pubblico. Avevo 19 anni, il mercoledì precedente avevo partecipato alla partita del torneo riserve ed ero contento di far parte della grande famiglia del Catania. Quando manca un’ora scarsa al fischio d’inizio mi raggiunge uno dei compagni: ‘Magi si è infortunato – mi grida d’improvviso – e mister Di Bella vuole te, corri a cambiarti!’ Non ero emozionato, anzi mi sentivo sicuro ma la partita non fu fortunata. Segnò subito Vinicio per gli avversari, poi a pochi minuti dal termine pareggiò Giovanni Fanello. Proprio allo scadere, però, beccammo due reti e buscammo un disgraziato 3-1 ma, ripensandoci, era inevitabile dal momento che negli spogliatoi, poco prima del via, il buon Beppe Vavassori aveva inavvertitamente rotto uno specchio attirandosi la malasorte. Invece, l’emozione mi attaccò un mese più tardi e c’era un motivo; a Catania scese il Bologna, una grandissima squadra, e il Cibali era la solita fossa dei leoni. Il pubblico era davvero l’uomo in più, all’uscita del sottopassaggio ci dava la scossa giusta capace di condurci alla vittoria. Fu quella la volta in cui segnai il mio primo gol in A. Ricordo ancora il cross di Biagini, la deviazione di Facchin e soprattutto che ci tuffammo sulla palla insieme io e Fantazzi. Il mio compagno tentava la rovesciata al volo ma lo anticipai di testa alzando la sfera verso l’angolino. Di botto, vidi gonfiare la rete e mi sentii stringere dai compagni in un unico grande abbraccio.
La nostra era una squadra splendida con Rambaldelli, Petroni, Calvanese, Biagini e dulcis in fundo l’allenatore Di Bella. Anche se non sorrideva mai, il mister era una persona eccezionale, un vero padre di famiglia. Forse tradito dal suo senso realistico non ebbe pazienza con noi giovani ma c’era da capirlo: doveva raggiungere traguardi concreti e immediati. Per essere promossi titolari bisognava essere davvero forti; guai se qualcuno della Primavera si mostrava affaticato durante gli allenamenti con i più grandi, significava un rapido ritorno dietro-front. Io, per esempio, soffrivo spesso gli esiti di uno stiramento al polpaccio in più di un’occasione non dissi nulla e strinsi i denti.
Una volta che mi ritagliai spazio in squadra, mi tolsi qualche altra soddisfazione. Come l’entusiasmante partita contro l’Inter. Era il 1966 e i nostri avversari avevano appena conquistato il titolo di campione del mondo. Al Cibali venne, insomma, gente del calibro di Sarti, Facchetti, Picchi, Mazzola e Suarez, che in campo mi toccò marcare. Erano dei fenomeni ma riuscimmo a vincere dopo una partita giocata alla morte in un Cibali stracolmo. La sera dopo passeggiavo per via Etnea ma venni riconosciuto e portato in trionfo da gente in delirio. Non fu, complessivamente, un’annata brillante dal momento che retrocedemmo in B ma rimasi in rossazzurro anche l’anno seguente e fui perfino convocato in nazionale under 23.”
“È vero o no – lo incalzo – che più di una volta scese in campo con le scarpe di Cinesinho?”
“Verissimo, – ribadisce Isidoro Artico – Sidney Cunha era un mito per tutti noi. Quando lo vedevo giocare sognavo di utilizzare le sue scarpe. Erano scarpette brasiliane particolari che lui a fine gara ripiegava e metteva nel taschino della giacca. Quando finalmente potei usarle tremavo per l’emozione e perché non volevo rovinarle. Erano questi i gesti che cementavano l’amicizia tra noi ed è soprattutto per questo che l’esperienza catanese non la dimenticherò mai. Bei tempi: pochi soldi e mai puntuali, ma un gruppo di amici dentro e fuori dal campo.
Mi ricordo benissimo i gavettoni a fine partita, gli scherzi indimenticabili ai giornalisti più antipatici, le colazioni offerte dalla gente al bar e le cene a base di pesce ad Acitrezza con gli amici. Di tanto in tanto mi sovviene in mente che quando non ci sarò più vorrei che le mie ceneri cospargessero il prato del vecchio Cibali. Ma ho solo sessantaquattro anni: c’è tempo per pensarci, caro Alessandro.”
Articolo pubblicato originariamente sulla rubrica “Il GoldenEx” della rivista ufficiale del Calcio Catania.
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