È morto Carlo Facchin, storico attaccante rossazzurro dal 1964 al 1966, raffigurato tra i 50 personaggi dei murales del Cibali. Lo ricordiamo con l’articolo scritto nel febbraio 2008 su “Il Catania Magazine”.
Alessandro, vent’anni, un metro e settanta, capelli e occhi castani, da tre settimane ha male al ginocchio sinistro. Tifoso doc del Catania, sogna di fare l’istruttore ISEF, adora Renato Zero e Takayuki Morimoto, ma anche Franco Battiato e Christian Terlizzi. Quando entra nel mio studio ortopedico, in via Sassari ottantasei, dà uno sguardo lesto alle pareti e rimane folgorato da un quadro appeso al muro.
«Uno dei più forti rossazzurri di tutti i tempi, uno che castigava regolarmente l’estremo difensore nemico, il centravanti ideale per il gioco di Carmelo Di Bella – gli faccio io, indicando con l’indice della mano destra l’immagine di Carlo Facchin – Mentre nel mondo impazza la minigonna e i Rolling Stones spopolano con “Satisfaction'”, il mister del Catania gli consegna le chiavi dell’area di rigore e i nostri sostenitori lo eleggono idolo. Dopo due anni passa al Toro ed è compagno di squadra di Gigi Meroni. Appese le scarpette bullonate al chiodo, guida gli azzurri di calcio a cinque e vince un Mundialito a Milano; poi diventa l’allenatore della Nazionale di calcio femminile nei campionati del mondo negli Stati Uniti d’America».
Parlare di Facchin è come accendere una miccia: conclusa la visita, invio velocemente un sms ad Angelo Scaltriti e lo avverto di un altro articolo in arrivo. Due battiti di ciglia dopo, digito il numero di un abbonato di Roma, mi presento, ascolto e trascrivo le parole di un mito dei favolosi anni ’60 rossazzurri.
«Sono nato settant’anni fa a Portogruaro – spiega Facchin – ma ho un carattere solare e mi piace l’aria della Sicilia. Lavoro ancora nel mondo del pallone e con Ottavio Bianchi (la persona che stimo di più nell’ambiente), Massimo Palanca, Gianni Bui e Bruno Mazzia, gestiamo una rete di osservatori per Lazio, Toscana ed Umbria. Nel luglio 64 sono approdato sotto il vulcano in punta di piedi; ero il capocannoniere della C (diciotto gol con la Reggiana), ma all’ombra dell’Elefante ero uno sconosciuto. Abitavo nei pressi di via Etnea e sentivo che la mia indole si coniugava bene con il nuovo habitat. Avevo bisogno dell’affetto dei tifosi; le loro pressioni mi davano una marcia in più. Non ero un calciatore tecnico ma mi entusiasmavo facilmente. Portavo la maglia rossazzurra con il numero undici sulle spalle e avevo un potente stacco di testa; le malelingue mi vedevano grasso, in realtà la robustezza mi dava forza nello scatto. Ero esuberante e rapido, tiravo da ogni posizione ma talvolta ero irruente e incespicavo davanti alla rete come sulla coda del demonio. Il ritiro precampionato si svolge ad Asiago, faccio un gol dopo l’altro e in città si chiedono chi sia questo Carlo Facchin. Comincia la Coppa del Sud e, con un tiro beffardo, la metto alle spalle dei numero uno della Lazio, poi, in Coppa Italia, segno nella gara vinta per quattro a zero contro Potenza.
Quando sta per prendere il via il campionato, domenica 13 settembre 1964. a Catania non stanno più nella pelle. Noi siamo a San Siro, contro il Milan di Maldini, Rivera, Trapattoni: per me è l’esordio in serie A. Sono talmente emozionato nel trovarmi fianco a fianco con fior di campioni, che corro a vuoto in mezzo al campo per novanta minuti. Siamo sotto per uno a zero, abbiamo superato la zona Cesarini l’arbitro fischia un corner per noi. Parte un cross che sembra disegnato con un compasso a traiettoria tesa e spiovente alto. Mario Barluzzi, il portiere rossonero grida ‘Mia!’ con tutto il fiato che ha in gola. Mi intrufolo fra lui e Cesare Maldini che si piega verso il basso, colpisco con una capocciata, osservo il pallone che gonfia la rete e scappo ad abbracciare i compagni: uno a uno. Sette giorni dopo giochiamo all’Olimpico contro i biancazzurri della Lazio e la butto dentro due volte: due a due. All’allenamento del martedì al Cibali, a migliaia corrono a salutare il nuovo bomber. Io vivo sulle nuvole e mi sento un marziano. Giochiamo quindi contro la Juventus al Cibali e opposti alla Vecchia Signora bianconera faccio fare centro alla pantera Giancarlo Danova, a Todo Calvanese e al buon Renato Rambaldelli: Catania batte Juventus tre a uno. Arrivano i rossoblu del Genoa e siamo sotto per due a uno; non so come ma in pochi minuti faccio doppietta e vinciamo tre a due. Primi in classifica: sei punti, perfetta media inglese e io primo goleador della serie A con cinque reti».
Che storia pazzesca, che grande Catania, che sogno. Per anni si è parlato di miracolo a proposito di questa o quella squadra di provincia capace di arrivare alle soglie del primato: come definire allora quella formidabile formazione etnea? Facchin prosegue: «Se penso alle due stagioni in rossazzurro ho ancora i brividi dopo quarantaquattro anni. Grazie ad assist telecomandati e passaggi millimetrati di alfieri come Sidney Cunha Cinesinho e Alvaro Biagini, ho realizzato il succulento bottino di ventidue marcature sessantacinque gare. Il mio ricordo di Gigi Meroni? È stato dipinto diversamente dalla realtà, era un carissimo ragazzo e già allora portava i capelli lunghi; era un hippy ma, in fondo, che male c’è? Era un funambolo, sull’uno contro uno eccelleva e le sue serpentine sulla fascia destra restano memorabili. Rimane uno dei più grandi giocatori che abbia mai Visto sul tappeto verde e un grande personaggio: era fortissimo ed aveva quel tocco di classe in più. Peccato che con lui. Nestor Combin e me insieme in campo, il mio gioco ebbe un’involuzione: ci voleva un pallone per me, uno per Combin e uno per il buon Gigi». Con Cinesinho e tutti gli altri ne bastò uno, invece, per fortuna: un pallone che fece vivere al Catania ed a Catania un momento indimenticabile…