Visitare il Brasile, la terra del futebol, non poteva che essere lo stimolo per andare (anche) a caccia di storie di sport ed in particolare di vicende rossazzurre.
Il rapporto tra il Catania ed i brasiliani è storia vecchia, risalente addirittura agli anni ’40 con la breve apparizione dell’oriundo Robespierri nel 1947/48. Ma fu con Cinesinho prima e con il duo Pedrinho-Luvanor poi che quello rossazzurro/verdeoro diventò un binomio che sarebbe rimasto nella storia, nel bene o nel male.
Oltrepassando l’oceano, in cerca di tesori
Giungere in Sudamerica è un’esperienza che lascia il segno: dopo tante ore di volo si è stimolati a vivere ancor più intensamente ogni momento e cogliere il massimo dal lungo viaggio.
Forse questo è ciò che passò anche per la mente di Angelo Massimino e Gianni Di Marzio quando, nel luglio 1983, si recarono in terra verdeoro in cerca del colpo di mercato per il neopromosso Catania. Ed effettivamente la spedizione brasiliana si svolse in pochissimi giorni, cercando di finalizzare nel più breve tempo possibile le tante trattative avviate.
Ma il Brasile è innanzitutto contrasti, sorprese, equilibri spesso difficili da cogliere. E ciò, come sappiamo, vale anche nel calcio. Con tale spirito, iniziamo questo racconto che unirà il fascino del presente con le suggestioni del passato.
Salvador: a bola come evasione dalla povertà
La prima tappa del mio viaggio è Salvador, prima capitale del Brasile, fondata nel 1549. La città è oggi una megalopoli che conta oltre 3 milioni di abitanti, che si affacciano sia sulla Baia di Tutti i Santi (dove si trova il bellissimo centro storico, Patrimonio Unesco) che sull’Atlantico. Un alternarsi di case e palazzoni, ville antiche e sontuosi grattacieli. Quel che salta all’occhio è l’enorme differenza sociale: i quartieri poveri e le favelas sono ben visibili, si stagliano sulle colline e sulle zone più limacciose delle coste, in un susseguirsi di mattoni, strade non asfaltate e fili scoperti. In questi quartieri (come la Ribeira o Massaranduba, che visito con la mia guida Charles) il calcio prende il posto dell’università, diventando una delle poche occasioni di evasione.
La strada, però, è lunga ed ecco perché chi alla fine ce la fa ad esordire nei grandi stadi diventa un autentico idolo, le sue gesta leggenda e le sue giocate fonte di ispirazione per chi calca i campetti impolverati.
La squadra più importante di Salvador è il Bahia, vincitore in passato di due campionati brasiliani e avente colori e simboli che richiamano molto Catania (Fenix tricolor, rosso, azzurra e bianca, che risorge migliore dalle proprie ceneri). Lo stadio è l’Arena Fonte Nova, costruita in occasione dei Mondiali del 2014 i cui soldi però – mi assicura Charles – si sono fermati alle strutture sportive, lasciando il resto della città in preda a povertà ed enormi differenze sociali.
Charles mi dice che era un tifoso sfegatato del Bahia, ma se n’è allontanato dopo le recenti presunte combine in Libertadores. Preferisce accontentarsi della ben più umile Ypiranga, la terza squadra della città, che pare navighi in acque turbolente come quelle catanesi. La seconda squadra per importanza è invece il Vitória, formazione da cui è transitato anche l’ex rossazzurro Marcelinho (9 presenze e un gol, contro l’Entella, nel 2014/15).
Cinesinho, il brasiliano dagli occhi a mandorla
Come detto, il primo grande brasiliano transitato alle pendici dell’Etna è stato Sidney Colônia Cunha, in arte Cinesinho, un piccoletto proveniente da Rio Grande e cresciuto nel Palmeiras. Con il club di São Paulo, Cinesinho vinse nel 1959 il campionato paulista dopo un’entusiasmante tripla sfida in finale contro il Santos di Pelé.
Le belle prestazioni valsero alla giovane ala riograndense la convocazione in nazionale verdeoro: 17 presenze e 7 gol per lui, anche se poi per il Mondiale del ’62 gli fu preferito Mengálvio. Il Palmeiras lo cedette all’Inter, ricavandone un gruzzoletto notevole con cui i Verdão gettarono le basi per una grande academia giovanile… di cui riparleremo più avanti.
Dopo un buon campionato in prestito al Modena in B, fu notato dal factotum rossazzurro Michele Giuffrida, che con un blitz da Angelo Moratti lo portò al Catania nell’estate 1963, in cambio di Szymaniak (valutato 100 milioni di lire) e 30 milioni da pagare in quattro anni.
Carmelo Gennaro e Luigi Prestinenza, nel libro Dal fondo un traversone, lo descrivono come un gran giocatore:
Con la palla faceva ciò che voleva e aveva un fiuto eccezionale per l’azione manovrata. Batteva i calci d’angolo con un “effetto” micidiale. Piccolotto, soffriva molto le marcature poco complimentose, e se retrocedeva era soltanto per “catturare” la palla e proporre una nuova azione offensiva.
Alla corte di Carmelo Di Bella, Cinesinho si ambientò bene. Qui trovò due connazionali (gli attaccanti Armando Miranda, arrivato dalla Juve, e Roberto José Battaglia, confermato dalla stagione precedente) ed esplose: una stagione strepitosa, in cui collezionò 30 presenze in campionato, 4 in Coppa delle Alpi ed una in Coppa Italia (segnando sette reti in totale). Lui, insieme alla pantera Danova, diventarono i nuovi idoli dei tifosi e conquistarono un ottimo ottavo posto.
Sue vittime preferite in quella stagione furono le due romane: segnò il primo gol in campionato il 5 aprile 1964 nell’1-0 contro la Lazio. Poi fu protagonista nel 4-4 in casa della Roma all’ultima giornata, con una doppietta. In Coppa delle Alpi, pochi giorni dopo, ne segnò addirittura tre alla Roma (4-2 a Ginevra), per poi siglare un’altra marcatura al Servette Ginevra (vittoria 3-2). Peccato aver perso la finale contro il Genoa…
L’ottava posizione fu replicata l’anno dopo, con Cinesinho protagonista di altre 30 partite (di cui una in Coppa Italia) ed un gol… guarda caso alla Roma, nel 4-0 casalingo. In quella stagione indossò in alcuni casi anche la fascia di capitano.
Nel mercato estivo del 1965 fu ceduto alla Juventus, con cui avrebbe poi vinto uno scudetto ed una Coppa Italia.
La Serie A a caccia di campioni
Il fascino del calcio brasiliano che nei primi anni Ottanta (soprattutto dopo la vittoria del Sarrià nell’82) attraeva i club italiani avrebbe portato in Serie A i vari Falção, Dirceu, Cerezo, il doutor Sócrates, Júnior e persino il dieci dei dieci, Zico.
Ecco perché l’idea di pescare dal campionato verdeoro allettava fortemente anche Massimino, a caccia di due colpi ad effetto per esaltare ancor di più la piazza etnea, dopo la promozione in Serie A. Sfruttando una finestra aggiuntiva di mercato concessa dalla Lega (visto che il Catania aveva finito la stagione precedente solo il 25 giugno), il presidente rossazzurro era alla ricerca di giovani “scommesse” straniere. “Sto andando in un paese che non vi posso dire a prendere due campioni brasiliani”, disse incautamente il Cavaliere il 1° luglio 1983 partendo con il mister Gianni Di Marzo alla volta di Rio de Janeiro.
Rio de Janeiro: la città del calcio
Seconda tappa del mio viaggio è proprio Rio, la città del calcio per antonomasia. Il Maracanã è una delle primissime cose che si vedono venendo dall’aeroporto internazionale Galeão. Immobile, silenzioso, solenne, l’Estádio Jornalista Mário Filho è un tempio che dall’esterno sembra intatto, ma che internamente è stato profanato – inevitabilmente – dalla pesante ristrutturazione dello scorso decennio in vista di Mondiali ed Olimpiadi. Resta però immutato lo spirito con cui è stato costruito: un tempio del calcio, pensato per la città e per le sue squadre.
La città è meravigliosa e le sue spiagge un trionfo di suoni, colori, odori. Proprio nel cuore di Copacabana sorge il Copacabana Palace, considerato in passato il primo grande albergo del Sudamerica. Proprio qui, nella stanza 653, nei primissimi giorni del luglio 1983 alloggiarono Massimino e Di Marzio e lungo i corridoi si susseguirono giocatori, procuratori e giornalisti. I nomi trattati furono quindici, tra cui Giorginho, Dudu, Serginho, Tita, Luvanor, Mendoca, Pedrinho. In alcuni casi, pranzavano tutti nella stanza di Massimino, con il Cavaliere – racconta Di Marzio nella sua biografia scritta con il figlio Gianluca – che faceva le punture di insulina davanti a tutti, imbarazzando non poco la compagnia.
Alla fine, i nomi scelti furono due: Luvanor Donizete Borges, mediano proveniente dal Goiás, squadra principale della città di Goiânia. Di lui la stampa diceva che fosse l’erede di Zico. Approdò a Milano il 9 luglio, con un esborso di 1 miliardo e 200 milioni di lire (più 165 milioni di ingaggio). E Pedro Luís Vicençote, detto Pedrinho, terzino sinistro dai piedi buoni, considerato uno degli astri nascenti del calcio brasiliano, tanto da far parte della Seleção ed aver fatto parte della spedizione dei Mondiali dell’82. Cresciuto nel Palmeiras (prodotto del vivaio sorto, come detto, dalla vendita di Cinesinho all’Inter) e approdato poi al Vasco da Gama, di lui si diceva un gran bene. Costato 1 miliardo e mezzo (più 300 milioni di ingaggio), giunse a Milano l’11 luglio, dopo una lunga trattativa.
I due poi, ufficializzati i contratti in Lega, giunsero a Fontanarossa in un tripudio di vessilli rossazzurri e bandiere brasiliane, pronti per il ritiro a Bibbiena. Le vicende di quell’estate ispirarono certamente il regista Sergio Martino e Lino Banfi per L’allenatore nel pallone, rievocando il viaggio a Rio di Massimino e Di Marzio (anche se Borlotti e Canà avrebbero portato alla Longobarda il solo Aristoteles).
Il Vasco di Pedrinho e l’amichevole al Cibali
Non lontano dal Maracanã si erge l’incredibile stadio São Januário, tempio del Vasco da Gama. Un luogo magico, che ha vinto lo scorrere del tempo mantenendo un fascino neocoloniale d’inizio Novecento, con le sue ringhiere in stile liberty, i suoi lampioncini, le sue azulejos e le sue panchine dietro ad una delle due porte (uniche al mondo). Qui Romario segnò il suo millesimo gol e non a caso gli è dedicata una statua nell’antistadio.
All’ingresso un cartello dice chiaramente che è severamente vietato l’ingresso nell’impianto con maglie o simboli di altre squadre. Ma chiedo alla responsabile del museo di fare un’eccezione, perché porto con me la sciarpa rossazzurra: “Le nostre due squadre in passato erano in ottimi rapporti – dico alla responsabile – tanto che il Vasco venne a giocare in Sicilia nel 1983”. Mi riferisco ovviamente all’amichevole giocata al Cibali il 18 agosto 1983 in cui i rossazzurri ospitarono il Vasco da Gama, in tournée europea. Finì 0-4, ma la scena la guadagnò il folcloristico massaggiatore del Vasco, Eduardo Santana, che salutò il pubblico rossazzurro con inchini e incoronò Pedrinho “Re di Catania”. A lui, morto nel 2011, il Vasco ha intitolato proprio una delle due panchine dello stadio São Januário.
“Ricorda di Pedrinho?” chiedo fiducioso, ma la ragazza tentenna, confondendolo con il più giovane (e ben più importante) Pedrinho Paolo de Oliveira, che fece vincere al Vasco la Copa Libertadores del 1998, esposta nella prestigiosa sala dei trofei.
Poco male: la foto con la sciarpa la faccio lo stesso e continuo il tour ammaliato da un luogo unico. Mi colpisce, in particolare, la parete esterna con le impronte delle mani di tutti i giocatori di colore che hanno vestito la maglia del Gigante da Colina (questo uno dei tanti soprannomi della squadra) dal 1898 ad oggi: il Vasco, infatti, fu la prima società a permettere ai neri di giocare nel campionato nazionale.
Anche nel Vasco di Pedrinho, campione carioca nel 1982, c’erano diversi giocatori di colore. Le sue prestazioni, come detto, gli valsero la Nazionale, con cui segnò anche un gol, nonché la partecipazione ai Mondiali spagnoli, senza però scendere mai in campo.
Da campioni a meteore
L’arrivo di Pedrinho e Luvanor portò in città entusiasmo, ma anche la “febbre brasiliana”: nelle discoteche di mezza Sicilia spopolavano brani come Aquarela do Brasil e Garota de Ipanema. I due giocatori, però, non incisero nel drammatico cammino degli etnei verso l’amara ed umiliante retrocessione. Di Pedrinho si ricordano i tre gol (in casa con la Samp, a San Siro contro il Milan ed in casa contro il Genoa), ma anche i tanti buchi difensivi. Luvanor, invece, fu totalmente abulico e lasciò pochissimi segni.
I due rimasero anche in Serie B: nel progetto del nuovo direttore Giacomo Bulgarelli e del mister Mimmo Renna i brasiliani sarebbero stati i punti fermi. Peccato che, anche in serie cadetta, il loro contributo fu altalenante, incidendo poco sulle sorti dei rossazzurri. Il terzino fu protagonista di un buon campionato nel 1984/85, con ben 8 gol messi a segno (uno di questi in Coppa) e quasi sempre in campo. Nella stagione successiva, invece, si smarrì: nessun gol in campionato (uno su rigore in Coppa) e contributo in calando.
Luvanor, invece, segnò appena cinque gol (due in Coppa) nelle due stagioni successive e, malgrado le grida della moglie Sueli all’indirizzo di mister Rambone (dopo una buona prestazione contro il Catanzaro), il suo contributo fu effimero.
Entrambi levarono le tende nell’estate 1986; Pedrinho tornò in patria, nuovamente al Vasco, mentre Luvanor girò tra Santos, Flamengo, Internacional, per poi chiudere la carriera proprio nel Bahia di cui si è detto sopra.
Di Pedrinho, comunque, qualcuno in Brasile si ricorda: quando lo cito alla mia guida come procuratore, mi fa il nome di Eriberto/Luciano (di cui l’ex rossazzurro curava gli interessi). Per sapere se qualcuno ricorda Luvanor, invece, si dovrebbe andare a Goiânia.
Lulù da São Luis
Rientro in Europa. Nel viaggio di ritorno sorvoliamo gli stati del nord, dove si trova São Luis, città natale di Luís Airton Oliveira Barroso.
Nella sua biografia Il volo del Falco, scritta da Angelo Scaltriti e Giovanni Finocchiaro, Lulù racconta la vita nel nord del Brasile: le partite in strada con gli amici, con la scuola “caliata” per andar dietro ad un pallone fatto con una calza imbottita di carta; la passione ereditata dal padre Zezico, anch’egli calciatore; le partite con il Tupan (all’epoca società satellite della Fluminense), con cui fece il suo esordio tra i professionisti; l’occasione di andare a giocare nell’altro emisfero, dopo aver stuzzicato l’attenzione del procuratore cileno Rubalotta che lo portò all’Anderlecht.
Il resto è storia nota: il Cagliari, la Fiorentina, il Bologna, il Como e, nel 2002, l’arrivo a Catania, dove sarebbe diventato l’idolo dei tifosi e dove avrebbe lasciato una parte di cuore (come ci raccontò quando lo intervistammo in radio). Per lui, in rossazzurro, 74 presenze e 27 reti in due stagioni tra Serie B e Coppa Italia.
E tutti gli altri
La colonia brasiliana al Catania si è arricchita nel tempo di altre comparse: Do Prado (2002/03, 6 presenze), Menegazzo (2004/05, 18 presenze), Jeda (2004/05, 19 presenze e 6 gol), Mezavilla (2004/05, 6 presenze), Higo Seara (2004/05, nessuna presenza), César (2004/07, 57 presenze e 2 gol), Babù (2007/08, 3 presenze), Pià (2007/08, 9 presenze), Martinho (2010/11 e 2014/15, 36 presenze e 5 gol), Wellington Teixeira (2011/12, 1 presenza), il già citato Marcelinho (2014/15, 9 presenze e 1 gol), Calil (2015/17, 46 presenze e 13 gol), Gladestony da Silva (2016/18, 10 presenze), Drausio Gil, (2017/18, 34 presenze e 1 gol) e per ultimo Bruno Vicente (arrivato nel mercato di gennaio di quest’anno).
Rieccomi in Italia: è stato un viaggio davvero intenso, in cui ho visitato tanti altri luoghi, visto tante altre meraviglie, vissuto il Carnevale (sia a Salvador che a Rio). Ma il calcio, in qualunque contesto, si ritagliava sempre un piccolo spazio: i campetti in minuscoli villaggi dell’entroterra bahiano, ragazzi e ragazze che palleggiavano in riva al mare, bambini che rincorrevano un pallone tra le strade di Rio.
Insomma, inebriarsi di piccole storie e viaggiare a ritroso con la fantasia e la memoria non è stata affatto una forzatura. E, in modo analogo, lo spirito del Brasile ha attecchito più volte nella storia rossazzurra, coinvolgendo l’intera città a passo di Samba. In un connubio saltuario ma vero, sincero, seppur non viscerale.
Non è un caso, forse, che i racconti del nostro passato siano così ricchi di una profonda, autentica, saudade…